Come si è arrivati all’Life Cycle Assessment come oggi la conosciamo? Quali sono le basi che hanno spinto a intraprendere questo percorso? Ha subito modifiche nel corso del tempo? Seguiteci nella lettura per trovare la risposta a queste domande.
Come abbiamo visto nell’articolo precedente “LCA, una metodologia per la transizione verde” l’analisi del ciclo di vita (LCA) è una procedura standardizzata, mediante normative ISO, che permette di registrare, quantificare e valutare l’impatto ambientale connesso con un prodotto, una procedura o un servizio, all’interno di un contesto ben preciso che deve essere definito a priori.
Ad oggi, risulta uno strumento fondamentale nel guidare l’operato di società ed enti governativi, grazie alla capacità di indicarci come le nostre azioni influiscono, o meglio “impattano” sul pianeta. Peraltro, l’impatto viene calcolato ed è quindi possibile elaborare soluzioni alternative ai modelli di produzione di un bene o un servizio, con solidi dati a supporto. Parliamo quindi di una procedura complessa, che richiede l’accesso ad una notevole mole di dati, da elaborarsi mediante procedure standardizzate.
L’aumento esponenziale della richiesta di materiali ed energia, dalla rivoluzione industriale occidentale, ha sancito una crescita senza precedenti del sistema economico lineare, basato sul consumo di risorse. Infatti, già dal negli anni ’30 del Novecento gli economisti di interrogavano circa la sostenibilità di modelli basati sullo sfruttamento di risorse non rinnovabili. L’aumento di nozioni relative alla crescente problematica dell’inquinamento ambientale e la riduzione delle risorse energetiche portò, negli anni ’60, alla nascita di primordiali studi improntati sul concetto di LCA.
Queste analisi, al tempo chiamate Ecobalance o “Analisi del Profilo Ambientale e delle Risorse (REPA)”, furono sviluppate dalla collaborazione di poli accademici e società prevalentemente negli Stati Uniti e nel Nord Europa. Il primo Ecobalance fu effettuato nel 1963 e si incentrava sulle richieste energetiche per la produzione di intermedi chimici e del prodotto finito. Bisogna subito specificare che, nella valutazione dell’esempio trattato, il focus era economico/prestazionale piuttosto che ambientale. Tuttavia, la metodologia ad inventario, di catalogazione di ogni singolo flusso in entrata e uscita, di ogni forma di energia e materiale, e di raccolta dei dati associati è il cardine su cui si fondano anche le LCA moderne nel fornire valutazioni d’impatto quantitative.
Insomma, negli anni ’60 questo tipo di analisi si focalizzava sulla raccolta dei flussi energetici, di materiali (specialmente petrolio, acciaio, ecc.), emissioni gassose e rifiuti solidi, attraverso tutti i processi industriali lungo il product system. Con il progredire degli inventari redatti, il focus degli Ecobalance andò mutando, dalla “mera” annotazione di flussi fisici di energia e materiali sotto forma di inventario, alla traduzione di questi flussi rispetto all’impatto degli stessi sull’ambiente. In sostanza, vennero costruiti degli indici basati sulle risorse utilizzate, piuttosto che sulle emissioni, in grado di calcolare l’impatto ambientale rispetto a diverse categorie, quali cambiamento climatico, acidificazione ed eutrofizzazione. In questi primi anni della storia dell’LCA, le maggiori problematiche a livello ambientale secondo l’opinione pubblica, andarono a spostare di volta in volta i foci, quindi gli impatti valutati, perdendo l’occasione di armonizzare e dare consistenza al metodo. A volte erano le emissioni di gas, altre volte il packaging delle bevande. In tal senso, uno studio pionieristico fu finanziato nel 1969 da Coca Cola, per valutare l’utilizzo di bottiglie di vetro riutilizzabili rispetto a quelle di plastica.
Negli anni ’70 prese via la disseminazione del concetto di ciclo di vita con la pubblicazione, nel 1974, dello studio “Resource and Environmental Profile Analysis of Nine Beverage Container Alternatives”, commissionata dall’Agenzia di Protezione Ambientale statunitense. Peraltro, questa fu una delle prime iniziative intraprese a livello governativo, nell’ottica dell’utilizzo dell’LCA per la stima dell’impatto ambientale.
Negli anni ’80 fu l’Europa ad interessarsi maggiormente a questo strumento, specialmente rispetto a studi riguardanti il packaging del latte. Diversi studi raggiunsero conclusioni differenti a parità di dati di partenza. Un risultato del genere avrebbe potuto far storcere il naso circa la validità della LCA. Fortunatamente, questo risultato sottolineò ulteriormente la necessità di una standardizzazione del quadro procedurale in ottica internazionale, che avrebbe preso il via negli anni ‘90. Nel 1989 fu rilasciata la prima versione del software per l’analisi LCA GaBi, e nacque la prima di una serie di LCA-based Ecolabel, la Nordic Ecolabel, volta a guidare i consumatori verso prodotti con il più basso impatto ambientale.
E gli anni ’90 non mancarono di novità. Anzitutto, fu coniato il termine LCA. Inoltre, fu rilasciata la prima versione di software SimaPro (1990), affiancata da preziose sorgenti di dati, ovvero molteplici database relativi agli inventari, pubblicati da differenti istituzioni. La fase di stima dell’impatto riuscì a slegarsi dall’influenza dell’opinione pubblica, ciò fu possibile mediante lo sviluppo di diverse metodologie di stima dell’impatto (CML92, EPS, Eco-indicator99).
Tuttavia, la maggior novità portata dall’ultimo decennio del XX secolo fu sul piano della standardizzazione e armonizzazione internazionale. La prima organizzazione a muoversi in tal senso fu la Società di Chimica e Tossicologia Ambientale (SETAC), che tramite una serie di workshop mirati alla discussione della metodologia LCA, arrivò al Code of practice for LCA nel 1993. I gruppi di lavoro SETAC sparsi fra Europa e Nord America arricchirono di ulteriori elementi comuni le fasi di inventario e stima dell’impatto mediante le periodiche discussioni fra i diversi gruppi, con relativa pubblicazione delle raccomandazioni scaturenti. Ciò portò, nel 2002, ad una partnership SETAC/UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite), volta ad un sempre maggior utilizzo e disseminazione delle pratiche LCA in Europa, Nord America e Giappone, le realtà più attive su questa pratica ai tempi.
L’attività di standardizzazione cominciata dalla SETAC fu ripresa e implementata dall’ISO, l ‘Organizzazione per la Standardizzazione Internazionale. In particolare, l’ISO voleva correre in soccorso delle realtà industriali, desiderose di portare sul mercato prodotti green, secondo i criteri di LCA, ma che riscontravano difformità relative alla standardizzazione metodologica, e che di conseguenza non riuscivano a fare affidamento sulle analisi del ciclo di vita. Nel 1997 fu pubblicata la normativa ISO 14040, riferimento normativo internazionale, che descriveva i principi generali della LCA e il quadro di lavoro, con un focus sulle 4 fasi di cui una LCA si costituisce, la loro correlazione e le limitazioni della LCA. La metodologia, relativa alle fasi di definizione scopo e ambito, analisi di inventario e stima dell’impatto ambientale, fu poi esplicitata rispettivamente nelle normative ISO 14041, 14042 e 14043, pubblicate fra il 1999 e il 2000. Nel 2006 poi, la normativa ISO 14040 subì un aggiornamento e inoltre nacque la normativa ISO 14044, volta ad accorpare e integrare quanto precedentemente indicato nelle normative ISO 14041, 14042 e 14043. Benché le linee guida strettamente affini alla LCA siano state inserite nella serie ISO 14040, ad oggi una serie di buone pratiche adottate nell’LCA fanno riferimento all’intera serie ISO 14000, relativa agli standard di gestione ambientale. Alcuni esempi sono il calcolo e la riduzione delle emissioni gassose (ISO 14064), l’eco-design (ISO 14006, 14062), il carbon footprint (ISO 14067) e il water footprint (ISO 14046).
L’attività di standardizzazione promossa dall’ISO, a partire dagli anni ’90, per quanto fondamentale nel delineare un quadro generale entro cui operare, lasciava interrogativi di carattere metodologico. A tal fine, fu determinante l’intervento della Commissione Europea, che nel 2005 sviluppò l’International Life Cycle Data System (ILCD), un database contenente svariati inventari e linee guida di carattere metodologico. Scopo di questa azione era appiattire le ambiguità lasciate dalle sole normative ISO, andando a migliorare la riproducibilità dell’analisi LCA rispetto alla soggettività degli operatori. Secondo gli stessi principi, la Commissione Europea ha continuato nella sua opera di omologazione rilasciando le linee guida relative l’impronta ambientale del prodotto (PEF) e l’impronta ambientale organizzativa (OEF), nel 2012.
Arriviamo ai giorni nostri, dove anche grazie alla disseminazione fatta in passato, l’LCA è uno strumento largamente noto a livello governativo per la salvaguardia e la prevenzione ambientale, oltre che nel contesto economico, dove l’adozione di valutazioni di questo tipo da parte delle società sta sempre più divenendo una consuetudine, per ragioni organizzative, di marketing ed economiche. C’è sicuramente spazio per migliorare l’analisi LCA, specie dal punto di vista metodologico, dove la soggettività dell’operatore può lasciare adito a difformità nel giudizio finale, ma con il crescente supporto tecnologico (dal punto di vista di raccolta dati, tramite inventory database ed elaborazione degli stessi, tramite software) e la crescente armonizzazione procedurale, avallata da soggetti istituzionali e non, questa procedura potrà solo che raffinarsi.