Gli Archaea, biotecnologie estreme

Vulcano archaea

L’approfondimento di oggi riguarderà le inaspettate potenzialità in campo biotech degli organismi appartenenti al Dominio Archaea. Perché inaspettate potreste domandarvi?

Beh, perché pur parlando di un intero dominio, al pari di quello batterico ed eucariote, le conoscenze scientifiche e anche l’interesse dimostrato verso questi organismi è sempre stato marginale.

Gli obiettivi di questo articolo saranno quelli di illustrare le potenzialità biotecnologiche di questi organismi, le potenziali ricadute industriali e perché no, dare l’attenzione che meritano a questi procarioti troppo spesso dimenticati.

Cosa è un Archaea?

Anzitutto analizziamo il nome di questo dominio, Archaea o Archaeabacteria. Chi mastica il greco saprà che il ἀρχαῖος fa riferimento a qualcosa di «antico» o arcaico, per l’appunto. Parlando del dominio Archaea, l’associazione con un qualcosa di passato, antico è decisamente calzante. Si parla infatti degli organismi più longevi sulla Terra, comparsi circa 3,5 miliardi di anni fa, in condizioni decisamente estreme se paragonate a quelle odierne, quali elevatissimi irraggiamenti UV, frequenti scosse telluriche o temperature elevatissime.

Questo ambiente “ostile” ha plasmato microrganismi “estremofili”, dal nostro punto di vista, che oggi popolano ambienti caratterizzati da condizioni sfavorevoli. Gli Archaea infatti popolano ambienti sia terrestri che acquatici, quali acque dolci e marine, sorgenti idrotermali oceaniche, geyser, ambienti salmastri e acque acide. Inoltre, questi microrganismi possono essere presenti nelle regioni antartiche, nei giacimenti petroliferi sotterranei, nel sistema digerente di ruminanti e termiti e perfino nei vulcani. Morfologicamente, non sono riscontrabili grosse differenze con i batteri, tuttavia l’avvento della biologia molecolare ha sparigliato le carte della classificazione.

Un nuovo dominio

Prima della scoperta delle tecniche di sequenziamento, tutti gli organismi non eucarioti unicellulari erano classificati come “Procarioti” e in seguito “Monere”. Parliamo quindi di un unicum tassonomico risultante dall’unione di Archaea e Batteri, basato su similarità morfologica. Negli anni ’70, Carl Woese e i suoi colleghi dell’Università dell’Illinois iniziarono a studiare le sequenze dei batteri, al fine di ottenere maggiori dettagli circa questi microrganismi. Le loro scoperte, pubblicate nel 1977, hanno riservato una grande sorpresa. Infatti, fra i microrganismi saggiati, erano presenti tre linee caratterizzate da sequenze di rRNA ben distinte: oltre ai gruppi di batteri ed eucarioti analizzati, c’era un terzo gruppo di microrganismi produttori di metano.

Questi metanogeni erano già noti nel mondo della microbiologia, delle mosche bianche in quanto produttori di enzimi insoliti, con pareti cellulari diverse da quelle di tutti i batteri noti al tempo e un’estrema sensibilità all’ossigeno. Grazie alle sue ricerche, Woese ha spiegato il perché di tutti queste bizzarre caratteristiche, riconducendole a sequenze nucleotidiche completamente diverse, che ponevano gli Archaea in una situazione in cui paragonarli a un batterio, piuttosto che a una pianta o a un animale sarebbe la stessa cosa.

Per questo motivo si decise di distinguere gli Archaeabacteria dagli Eubacteria (i veri e propri batteri).

Le differenze mostrante dal sequenziamento ribosomiale sono riscontrabili anche a livello fisiologico e metabolico, dove stabilire se il dominio degli Archaea risulti più vicino ai batteri o agli eucarioti risulta impresa ardua. Infatti, gli Archaea condividono con gli eucarioti alcune caratteristiche mancanti nei batteri, quali la presenza di istoni, delle RNA polimerasi complesse e siti di inizio traduzione metioninici. Inoltre, entrambi i domini mancano di pareti a base di peptidoglicano.

Tutte queste similarità fanno propendere la comunità scientifica verso un maggior grado di correlazione fra Archaea e Eucarioti e quindi una precoce separazione fra il progenitore di questi due domini e il dominio dei batteri, rispetto al last universal common ancestor (LUCA).

LUCA e Archaea

Il potenziale degli Archaea in campo biotech

Nell’ambito delle biotecnologie microbiche, gli organismi eucarioti e batterici eclissano quasi totalmente gli Archaea in termini di consapevolezza e conoscenza pubblica, applicazioni industriali e studi scientifici, benché le proprietà straordinarie degli Archaea possano offrire una serie di soluzioni non adeguatamente considerate verso modelli più sostenibili.

I prodotti sintetizzabili dagli Archaea sono disparati e spesso esclusivi degli organismi facenti parte di questo dominio. Fra questi, alcuni dei più rilevanti sono:

  • Metano
  • Idrogeno
  • PHA
  • Componenti cellulari
  • Isoprenoidi
  • Enzimi

Inoltre, il ruolo degli Archaea in contesti come quello del biorisanamento può essere fondamentale nella creazione di consorzi microbici in grado di agire efficacemente nella gestione di inquinanti in diversi ecosistemi.

Carburanti bio-based

Come abbiamo già avuto modo di osservare, i metanogeni sono organismi noti da molti anni. Essi popolano gli ecosistemi più disparati, ma tutti accomunati dall’assenza di ossigeno. Infatti i taxon interni al dominio Archaea si servono di diverse fonti di carbonio che vanno a ridurre fino a CH4, indipendentemente dall’ossigeno. Gli Archaea metanogeni, quali i generi Methanothermobacter e Methanobacterium possono metabolizzare diversissimi substrati organici e non, quali H2, CO, CO2, acidi organici, composti metilati e metossilati, a temperature di reazione fra gli 0 e i 122°C!

I maggiori interessi sotto il profilo biotech riguardano la selezione di ceppi in grado di utilizzare la CO2 in modo selettivo per la produzione di metano, impiegando diossido di carbonio puro o contenuto in gas di scarico, andando a studiare le soluzioni reattoristiche e i parametri di coltura più idonei per massimizzare la riduzione chimica.

Un altro carburante che sta sempre più ricevendo attenzioni è l’idrogeno, di cui abbiamo avuto modo di parlare nell’articolo “LCA un esempio pratico: elettrico o tradizionale?“. In tal senso, è importante identificare delle solide alternative bio-based per l’approvvigionamento di H2 rispetto alla situazione globale attuale, dove il 75% dello stesso viene ricavato da carbone e gas naturale.

In questo contesto, Archaea ipertermofili quali quelli afferenti ai generi Desulfurococcus, Pyrococcus e Thermococcus potrebbero andare a produrre idrogeno impiegando diversi scheletri carboniosi in purezza, ma anche polisaccaridi o matrici complesse quali la ligneo-cellulosa. La ricerca si sta muovendo verso approcci di transgenesi, volti a ridurre la sensibilità all’ossigeno dei ceppi, piuttosto che verso la sovraespressione dei geni coinvolti nel pathway di sintesi di H2. Infine, la possibilità di utilizzare gas di scarico quali il monossido di carbonio da parte di alcuni ceppi, come Thermococcus onnuriensis NA1 può generare ulteriori vantaggi, relativi alla gestione e smaltimento di gas altrimenti problematici.

Carburanti

Bioplastiche di origine batterica

Molti batteri ma anche Archaea sono in grado di sintetizzare, durante la crescita, dei bio-poliesteri chiamati poliidrossialcanoati (PHA). I PHA possono mostrare una struttura chimica estremamente variabile, in funzione del tipo di monomeri di cui sono costituiti. Possiamo infatti avere omo- ed etero-polimeri, con monomeri a catena corta o media.

I PHA short-chain-length (scl) danno vita a polimeri termoplastici duri , mentre i polimeri medium-chain-length (mcl) mostrano invece caratteristiche elastiche e simil-latex. Nel 2018, 2,11 milioni di tonnellate di PHA sono stati prodotti, solo l’1,4% del totale delle bioplastiche sintetizzate; tuttavia la quota di produzione di queste bioplastiche sta aumentando. Le produzioni industrialmente disponibili di PHA sono totalmente a carico di fermentazioni batteriche, tuttavia l’utilizzo di Archaea e in particolare aloarchaea potrebbe portare indubbi vantaggi.

Gli aloarchaea sono microrganismi presenti in diversi ecosistemi ipersalini e richiedono concentrazioni saline maggiori del 15% per una crescita ottimale. In particolare, i polimeri prodotti si mostrano come omo- ed etero-polimeri scl a base di butirrato, i poliidrossibutirrati (PHB).

La produzione di diversi PHB può essere modulata alimentando i microrganismi con diversi scheletri carboniosi, che hanno la funzione di metaboliti e di substrati precursori, sintetizzando molecole con cristallinità e temperature di melting variabili. Diversi PHB possono trovare applicazione nell’ambito medicale, per la produzione di dispositivi chirurgici, per impianti di rigenerazione ossea, per scopi ortodontici e per il rilascio controllato di molecole ad attività farmaceutica.

Anche se la produzione di PHA da parte degli Archaea non è ancora ottimizzata e quindi minore rispetto alla controparte batterica, le prospettive per ridurre enormemente i costi di produzione del poliestere potrebbero favorire questa via meno investigata. Infatti, alcune delle voci di costo maggiormente impattanti fanno riferimento alle fonti di carbonio e azoto utilizzate nella produzione del medium di coltura.

La ricerca di fonti circolari, quali sottoprodotti di diverse industrie è già stata investigata. Vi sono infatti ricerche relative all’impiego di glicerolo derivante dalla produzione di biodisel, vinacce e biomasse spente post-bioetanolo, olio minerale, acque reflue da frantoi e siero idrolizzato da caseifici. Inoltre, le elevate salinità richieste durante la crescita permettono di esercitare una barriera contro le contaminazioni, senza ricorrere ad approcci di sterilizzazione del medium. Le evidenze circa la possibilità di recuperare il sale impiegato e di sfruttare il brodo spento come fonte di azoto aprono ulteriormente le porte verso un abbassamento dei costi di produzione dei PHA da Archaea.

Sale Archaea

Le peculiarità delle cellule degli Archaea

L’interno e la superficie delle cellule di questi straordinari microrganismi presentano organelli, componenti, proteine per noi poco convenzionali, in quanto adattati a situazioni insolite. Di fatto questi adattamenti che a breve scopriremo, rappresentano un enorme serbatoio di potenziali utilizzi in campo biotech.

Sulla superficie delle cellule archaeali è possibile individuare un layer proteico, l’S-layer, costituito da proteine di membrana. Questo strato è presente anche nei batteri, dove spesso è legato alla parete di peptidoglicano o ai lipopolisaccaridi, mentre spessissimo è l’unico componente di parete negli Archaea a diretto contatto con la membrana. Le S-glicoproteine archaeali sono coinvolte nel mantenimento della morfologia strutturale, nella corretta divisione cellulare e nella resistenza agli stress osmotici.

Le estreme condizioni a cui sono esposte le cellule porta alla generazione di proteine in grado di mantenere la corretta conformazione a pH fra 1 e 12 e temperature fino a 120°C, oltre che una resistenza a solventi organici e proteasi. Tutte le peculiarità di queste glicoproteine auto-assemblanti possono permetterne l’applicazione per diverse soluzioni relate alle nanobiotecnologie. Si va da membrane per l’ultrafiltrazione a microparticelle funzionali per test ELISA, fino a biosensori per biomineralizzazione controllata, membrane funzionalizzate e sensori bioanalitici ottici e amperometrici.

Altre strutture proteiche che caratterizzano sia batteri che Archaea sono le gas vesicles (GVs), organelli esclusivamente formati da proteine deputati al galleggiamento delle cellule. Le GVs archaeali si compongono di due proteine principali, GvA e GvC, più cinque proteine minori. Le possibili applicazioni di questi organelli proteici sono nell’ambito medico: infatti le proteine caratterizzate possono fungere da epitopi nello sviluppo di vaccini, ma queste vescicole possono fungere anche da agente di contrasto per approcci di medicina diagnostica tramite ultrasuoni e imaging mediante risonanza magnetica. Inoltre, approcci di ingegneria genetica possono portare alla creazione di GV-nano particle (GVNP), grazie alla fusione di antigeni specifici sulla fusione della proteina GvC. In questo modo è possibile mettere a punto cassette di espressione versatili, con la presenza di epitopi multipli su una singola nano-particle. 

La batteriorodopsina (bR) è una proteina transmembrana, composta da retinale e batteriopsina legate in modo covalente. È un’analoga della rodopsina degli occhi dei mammiferi utilizzata dagli Archaea, in particolare alla classe degli Halobacteria. Essa agisce come una pompa protonica, cattura energia luminosa e la utilizza per spostare protoni all’esterno della membrana cellulare al fine di sintetizzare ATP. L’espressione della bR viene incrementata notevolmente in carenza di O2 e in presenza di UV e la manifestazione della proteina si ha con una colorazione violacea delle membrane. La molecola si mostra stabile fra pH di 2 e 12, fino a 80°C in soluzione e 140°C quando solida, è stabile in solventi organici apolari e una volta disidratata ha una shelf life di anni.  Le caratteristiche di stabilità e le proprietà fotoelettriche, fotocromatiche e di trasporto di protoni hanno in passato ispirato applicazioni in campo ottico, di bioimaging e di biosensoristica oltre che nella produzione di celle fotovoltaiche bio-enhanced. Nonostante la ricerca in questi settori abbia subito un rallentamento, il riscoperto interesse nelle scienze dei materiali potrebbero riportare in auge questa proteina e le sue proprietà.

Gli isoprenoidi, la base della struttura degli Archaea

Gli Archaea possono essere visti come una fabbrica di isoprenoidi in quanto sono in grado di sintetizzare un range di molecole molto ampio. Gli isoprenoidi sintetizzati sono spesso la base dei componenti degli involucri cellulari archaeali, quali i lipidi tetra-eterei e i carotenoidi.

Rispetto alla membrana batterica ed eucariote, costituite da esteri del glicerolo-3-fosfato con acidi grassi lineari spesso insaturi, le membrane archaeali presentano esteri del glicerolo-1-fosfato legati a catene isopreniche sature. A seconda delle unità isopreniche per catena si possono avere catene di archeolo, composto di due molecole di isoprene, e caldarcheolo costituito da quattro unità. L’archeolo forma bi-layer simili a quelli fosfolipidici mentre il caldarcheolo forma mono-layer ed è tipico degli estremofili metanogeni, termofili e termoacidofili.

Queste peculiarità delle membrane sono profondamente correlate alla maggior resistenza di questi organismi verso ampi range di pH e temperatura, oltre che alla maggior resistenza a stress ossidativi. Le membrane archaeali sono in grado di vescicolare, come quelle batteriche e eucarioti, generando veri e propri carrier di molecole quali i liposomi, vere e proprie vescicole lipidiche. Già oggi, i liposomi costituiti da fosfolipidi esterificati con acidi grassi trovano impiego nella drug delivery, come scaffold antigenici per la produzione di vaccini e nella skin care.

Tuttavia, i liposomi archaeali, costituiti da lipidi di- e tetra-eterificati con isoprensoidi, chiamati archaeosomi, sarebbero in grado di trasferire le caratteristiche di resistenza appena accennate a queste vescicole. Ciò consentirebbe di ottenere vescicole molto stabili, che possono essere sterilizzate in autoclave, a vantaggio delle shelf life, senza fuoriuscita di materiale. Inoltre, studi su modelli di topo dimostrano maggiori efficienze di delivery di antigeni e farmaci per via orale di archaeoliposomi, rispetto ai liposomi “convenzionali”.

Carotenoidi

I carotenoidi sono una sottofamiglia di isoprenoidi, molto estesa, che conta più di 1100 molecole differenti, prodotta da batteri, alghe, funghi, piante e Archaea. Sono pigmenti di colori giallo, arancione e rosso che hanno funzione nella fotoprotezione, nella protezione da stress ossidativi e nella fotosintesi. Sono molecole sempre più richieste come coloranti e additivi per i settori food & feed, oltre che in cosmesi per le proprietà antiossidanti. In questo contesto, i costi di produzione e le concentrazioni ridotte da produzioni vegetali possono portare all’attenzione organismi quali gli Archaea, in grado di sintetizzare carotenoidi quali licopene, cantaxantina e batterioruberina. In questo contesto, i margini per l’ottimizzazione della biosintesi su scala laboratorio e soprattutto reattoristica sono ancora ampi. In particolare, il carotenoide batterioruberina riveste particolare attenzione, in quanto sintetizzabile esclusivamente da Archaea del taxon Haloferacaceae e pochi batteri. Questo pigmento rosa protegge le cellule dalle radiazioni γ, UV e stress ossidativi, oltre che contribuire alla resistenza al freddo e nel DNA repair. Oltre a esercitare una capacità antiossidante 2,8 volte superiore a quella del β-carotene, fattore che apre la strada ad applicazioni in ambito cosmetico, questo carotenoide è utile nel mantenere funzionalità e motilità in spermatozoi in seguito a cicli di congelamento e disgelo, ma anche come colorante alimentare.

Vi sono poi altre molecole isopreniche sintetizzabili da questi organismi, quali il geraniolo o lo squalene. Il geraniolo è una molecola volatile trovabile in diverse piante, che trova applicazioni in ambito cosmetico come deodorante, mentre mostra proprietà repellenti verso gli insetti e sembra possedere proprietà mediche. La produzione di questo metabolita da parte di Archaea metanogeni potrebbe aprire la strada a produzioni consistenti e basati sulla riduzione della CO2, piuttosto che da fermentazioni microbiche legate all’utilizzo di carboidrati. Quanto allo squalene, parliamo di un triterpene precursore del colesterolo, che ha mercato in cosmesi, nel settore farmaceutico e alimentare. La molecola fu scoperta nel 1916, nel fegato degli squali, animali che tutt’oggi rimangono la maggior fonte delle 2700 tonnellate annue richieste dal mercato. Fonti alternative di squalene, più sostenibili e responsabili della decimazione delle popolazioni di squali, sono rappresentate da piante, batteri, ma anche Archaea metanogeni, sistema molto interessante in prospettiva ma che necessita di ulteriori ottimizzazioni.

Squalo

Biocatalizzatori unici

Uno dei settori dove si focalizza la maggior parte della ricerca relativa agli Archaea riguarda la produzione e l’isolamento degli enzimi prodotti da questi microrganismi. Parliamo infatti di catalizzatori sintetizzati da estremofili, le cui condizioni estreme di crescita hanno plasmato proteine con proprietà struttura-funzione uniche. Tali enzimi noti come estremozimi hanno elevatissima stabilità a temperature molto basse e alte, pH estremi, solventi organici, metalli pesanti, attacchi proteolitici, ma anche a pressioni superiori ai 100 Mpa, a salinità molto elevate e a livelli di radiazioni ionizzanti cinque volte maggiori a un grado di esposizione letale per l’uomo.

Questo spettro di adattamento rende queste molecole estremamente utili per settori industriali caratterizzati da parametri operativi similari a determinate condizioni naturali. L’approccio preferito, attualmente, riguarda l’identificazione dei geni responsabili della sintesi enzimatica e della loro espressione in sistemi mesofili maggiormente consolidati, come Escherichia coli o sistemi lievitoidi, dove scalabilità e processamento delle biomasse sono aspetti largamente investigati.

Alcuni esempi dell’utilità pratica di questi enzimi sono rappresentati dalle proteasi archaeali, impiegabili nella formulazione di feed e formulazioni neonatali a maggiore digeribilità. L’idrolisi delle proteine, svolta a 40-60°C giova dell’impiego di enzimi con attività ottimale a queste temperature. Nella formulazione di detergenti, l’impiego di proteasi resistenti a pH alcalini, permette di ottenere enzimi in grado di operare anche in presenza di detergenti, mentre l’impiego di proteasi psicrotolleranti consente lavaggi a temperature più basse.

Preziosi alleati nella cura degli ecosistemi

Il biorisanamento consiste nell’impiego di microrganismi per la rimozione di contaminanti da differenti ecosistemi. Tradizionalmente i batteri sono gli organismi più impiegati, mediante approcci di biostimulation, volti a creare le condizioni più idonee per stimolare l’attività batterica e di bioaugumentation, ovvero di inoculo nell’ecosistema di ceppi performanti, piuttosto che di ceppi isolati dal sito stesso e reinoculati, per aumentarne la concentrazione e per stimolare l’attività. Ma in cosa consiste questa attività?

Tipicamente gli enzimi microbici agiscono agevolando la conversione di composti organici in altre molecole (da valutare se più o meno tossiche), piuttosto che su reazioni redox che coinvolgono metalli pesanti, al fine di ridurne la disponibilità nel sistema.

I ruoli degli Archaea in questi contesti possono essere diversi. Possono infatti essere i protagonisti della storia in particolari ecosistemi estremi o dei validi sparring partner dei batteri in altre situazioni. Nel caso di saline, laghi salati, distese di sale (sabkhas), paludi salmastre, ma anche acque reflue della produzione di oli e gas, è comune la contaminazione da petrolio, mentre in altre situazioni industriali gli effluenti prodotti risultano ugualmente ricchi di combustibile fossile.

Gli alobatteri stanno dimostrando la possibilità di degradare diversi idrocarburi, alifatici e aromatici, tramite enzimi idrolitici, in queste situazioni ecologiche altrimenti proibitive, talvolta utilizzando molecole altamente recalcitranti come gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Per quanto riguarda la gestione degli sversamenti di olio negli oceani, il ruolo degli Archaea non è ben chiaro. Sebbene la gran parte di questi microrganismi risenta della presenza di oli, sono stati isolati ceppi da aree contaminate che non mostravano significative differenze di crescita in presenza di oli e che quindi potrebbero impiegare olio nel proprio metabolismo.

Ciminiera

Anche gli Archaea termofili possono trovare impiego nella bioremediation, come nel caso di Sulfolobus solfataricus, termo-acidofilo impiegabile in tutti quei flussi di effluenti industriali caratterizzati da elevate temperature. Alcuni ceppi hanno già mostrato efficacia su diverse molecole organiche, come nel caso del ceppo 98/2, in grado di degradare il fenolo a 80°C e pH 3,2. Alcune limitazioni relative a questi microrganismi risiedono però nell’elevata temperatura ottimale di crescita, aspetto che porta a una elevata volatilità degli inquinanti organici e che riduce la solubilità nel brodo dell’ossigeno, indispensabile per i termofili aerobi.

Quelli appena trattati sono alcuni degli ambiti nei quali gli Archaea sono gli unici organismi in grado di detossificare sistemi particolarmente complessi, tuttavia vi sono situazioni non estreme nelle quali possono fornire un validissimo supporto ai batteri. Infatti, nel caso dei suoli inquinati da idrocarburi, il metabolismo degradativo batterico a spese di questi scheletri carboniosi genera dei by-products come acetato e idrogeno.

Gli Archaea metanogeni idrogenotrofi e acetoclastici sono in grado di convertire idrogeno e acetato in metano, rispettivamente, in anaerobiosi. Sebbene idrogeno e acetato non rappresentino elementi di particolare pericolo nel suolo, l’attività di sottrazione di questi prodotti dal sistema spinge l’equilibrio termodinamico delle reazioni biochimiche batteriche verso i prodotti, stimolando l’attività degradativa delle molecole organiche tossiche. Le prime evidenze di questa simbiosi risalgono a ricerche di circa 20 anni fa, in cui si è riscontrata una netta maggioranza di Methanosaeta spp. nella comunità archaeale di suoli clorinati e contaminati da carburante per jet. Da lì si è denotata la capacità di questo genere acetoclastico e di generi idrogenotrofi di promuovere la degradazione di svariati inquinanti del suolo.

Conclusioni

Con questa trattazione abbiamo voluto fare una approfondita immersione nel microscopico e “inospitale” mondo degli Archaea. Al netto delle differenze morfo-fisiologiche con i batteri e gli eucarioti, ciò che è realmente sconvolgente è la capacità di questi organismi di adattarsi a situazioni estreme e di elaborare delle strategie per sopravvivere. Proprio queste soluzioni sono terreno fertile per nuove frontiere biotecnologiche, sempre più in grado di sostituire prodotti e processi attualmente impiegati, superando le classiche barriere, ovvero i parametri di crescita. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che queste condizioni possono spesso essere impiegate come fattore di esclusione dei contaminanti, le prospettive diventano ancora più allettanti.

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