Muschi, una risorsa sottovalutata!

Oggi parleremo del primo taxon del regno delle piante a conquistare le terre emerse, le briofite. Tutti noi le conosciamo con il nome generico di muschi, ma in realtà essi costituiscono solo uno dei tre gruppi che compongono questo incredibile taxon di organismi. Le briofite difatti si suddividono in tre classi: i muschi (Bryopsida), le epatiche (Hepatopsida) e gli antoceri (Anthoceropsida).

Ad essere precisi, parleremo delle potenzialità biotecnologiche di questi organismi un po’ bistrattati. Infatti, nell’accezione comune i rappresentanti del taxon Bryophyta vengono un po’ trascurati e la loro importanza viene ingiustamente confinata all’ambito ornamentale o ad applicazioni poco valorizzate come indicatori naturali della qualità ambientale.

Eppure queste piante rappresentano un anello di giunzione fondamentale per gli organismi fotosintetizzanti: questo phylum raggruppa i primi organismi vegetali terrestri e presenta una serie di caratteristiche peculiari, ben conciliabili con una serie di applicazioni biotecnologiche.

Muschi e biotecnologie

Alcune fra le caratteristiche più significative delle briofite rispetto all’eventuale sfruttamento biotecnologico sono:

  • La generale assenza di tessuti vascolari lignificati: questo aspetto comporta tessuti costituiti da uno o pochi strati di cellule, che favoriscono il trasferimento dell’acqua per capillarità (si segnalano tuttavia anche casi di gruppi di cellule con funzione di trasporto, non lignificati), oltre ad una generale dipendenza dall’umidità per scongiurare il disseccamento. Questa differenza rispetto alle cosiddette piante vascolari comporta differenti tipi di strategie contro gli stress abiotici, non ancora completamente indagate;
  • Minor complessità rispetto ad altri sistemi vegetali: molte specie afferenti al phylum Bryophyta ben si prestano alla coltivazione axenica in diversi dispositivi, inclusi i fotobioreattori (PBR). In queste strutture, variamente strutturate, le potenzialità fotosintetizzanti vengono esaltate dal controllo dei parametri colturali, agevolando velocità di crescita e produttività;
  • Ciclo aplodiplonte con netta prevalenza della fase gametofitica: la parte verde dei muschi, “quello del presepe” per intenderci, rappresenta il gametofito, ovvero un organismo aploide, presente nella gran parte del ciclo vitale dell’organismo, mentre la fase sporofitica diploide, è rappresentata da una struttura legnosa portata sulla sommità della pianta.

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Nell’immagine il gametofito aploide è rappresentato dalle strutture verdi, mentre lo sporofito diploide è rappresentato dalle strutture rosse.

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Una fonte inattesa di molecole bioattive

All’interno delle tre classi che costituiscono le briofite sono presenti specie in grado di sintetizzare molecole ad elevato interessa industriale, come i sesquiterpeni, i norsesquiterpeni, le antocianidine, le riccionidine, ed altre. Queste capacità metabolomiche conferiscono proprietà estremamente utili per il possibile sfruttamento biotecnologico di questi organismi: dall’attività antimicrobica, molluschicida e anticrittogamica, alla repulsione degli insetti, fino allo sfruttamento in profumeria e all’uso medico, grazie all’attività cardiotonica degli estratti.

Prospettive nell’Africa Sub-Sahariana

Come accennato in precedenza spesso le briofite vengono un po’ trascurate o comunque non sono il target principale della ricerca. Un esempio di ciò proviene dall’Africa. Le aree umide del Camerun pullulano di moltissime specie di briofite e peraltro la posizione centrale rispetto al continente africano fa si che sia rappresentata una gran parte delle caratteristiche geografiche ed ecologiche dell’Africa, permettendo lo sviluppo di molteplici briofite.

Nonostante ciò, la ricerca di molecole bioattive sfruttabili contro una serie di problematiche incidenti sull’economia e sulla sanità dell’intero continente si è concentrata, negli ultimi 30 anni, sulle piante vascolari. Le problematiche su cui si sta focalizzando la ricerca afferiscono per lo più alla sfera agro-alimentare: il 70% dell’apporto nutritivo della popolazione africana è costituito da mais e arachidi, colture minacciate in campo e nel post-raccolta da attacchi fungini, perlopiù aspergillosi. La proliferazione fungina porta al collasso delle colture o peggio alla contaminazione con le temute aflatossine. Altra problematica è rappresentata dalla dermatofilosi, malattia che affligge greggi e bestiame; è causata dal batterio Dermatophilus congolensis e trasmessa all’animale dalle zecche. La malattia ha un’altissima infettività, porta l’animale a morte per debilitazione e inoltre è trasmissibile all’uomo (zoonosi).

Spiga di mais affetta da attacchi fungini contaminanti le cariossidi con micotossine, composti estremamente cancerogeni.

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K. Y. Anchang e H. T. Simonsen hanno studiato e testato le briofite autoctone e hanno identificato una possibile soluzione comune a diversi problemi: gli anticrittogamici presentano costi proibitivi per la gran parte degli agricoltori, mentre gli antibiotici per il bestiame possono presentare problematiche relative a tossicità e concentrazione di metalli pesanti. I due ricercatori hanno identificato estratti di muschi e antoceri in grado di arginare queste patologie, scoperta che potrebbe rappresentare il primo passo di una possibile svolta. Infatti, maggiori produzioni agricole permetterebbero di nutrire adeguatamente il bestiame, equilibrando la dieta di molti africani, ad oggi estremamente povera di proteine.

Gli unguenti e le soluzioni sospese in glicerolo o in acqua a base di briofite, caratterizzate da una composizione semplice e da essenze autoctone, permetterebbero agli Stati africani di rendersi indipendenti dall’acquisto di agrofarmaci e antibiotici, incentivando l’industria locale in una produzione a misura di agricoltore. Inoltre, l’utilizzo di estratti vegetali permetterebbe di debellare anche i ceppi di Aspergillus e Dermatophilus divenuti ormai resistenti ai trattamenti convenzionali.

Le potenzialità nell’healthcare

Come già accennato, le briofite presentano un pattern di metaboliti molto interessante per differenti settori industriali. Diverse specie sono state studiate per il contenuto lipidico, e hanno rivelato la presenza di svariati acidi grassi polinsaturi (PUFA), come gli omega-3 e 6, molecole di spiccato interesse per il comparto nutraceutico, visto il ruolo favorevole sulla salute umana. L’accertata capacità di crescita all’interno di PBR, unita alla caratterizzazione genomica di alcune specie, offre una valida alternativa di produzione di PUFA, rispetto a sistemi biologici meno sostenibili.

L’azienda Mibelle Biochemistry ha recentemente raggiunto la produzione di MossCellTeeTM, primo ingrediente cosmetico derivato da muschi. Trattasi di un estratto cellulare acquoso del muschio Physcomitrella patens che ha dimostrato svariate proprietà benefiche su sistemi dermatologici umani artificiali.

Gli estratti di P. patens hanno dimostrato attività positiva sui nuclei delle cellule umane, stimolando una maggior espressione dei geni relativi alla salute cellulare, in cellule sottoposte a invecchiamento. Inoltre gli estratti hanno mostrato un ruolo benefico nell’adattamento a climi caldi/freddi, nella riparazione cellulare, nell’idratazione della pelle e nell’agire da barriera agli agenti esterni.

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Gametofito di Physcomitrella patens.

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Può la trasformazione genetica esaltare le peculiarità delle briofite?

Abbiamo già fatto rifermento al basso grado di complessità strutturale delle briofite e alla prevalenza del ciclo gametofitico aploide. Questi aspetti facilitano l’ingegnerizzazione, così come l’altissima frequenza di ricombinazione omologa (HR), che nell’organismo modello P. patens raggiunge frequenze del 100%. L’HR è uno dei possibili meccanismi di riparazione alle rotture che possono avvenire, per cause naturali o indotte, sulla doppia elica del DNA e in questa particolare casistica la rottura viene “riparata” attraverso l’aggiunta di frammenti di DNA esterni, utilizzando sequenze genomiche complementari.

Ricombinazione omologa: l’integrazione della regione d’interesse (in giallo) avviene all’interno del genoma (in verde), sfruttando l’omologia nucleotidica delle regioni fiancheggianti (in blu). Nella casistica qui rappresentata l’inserimento di una regione genomica va a scalzare un gene endogeno (in arancione), situazione annoverabile nei casi in cui la volontà sia quella di modificare determinate vie metaboliche.

Nelle briofite l’HR avviene con una frequenza molto più alta rispetto alle piante superiori e gli altri eucarioti, che si servono di altre strategie di riparazione. La peculiarità di queste “piante anfibie” può essere sfruttata dall’uomo per integrare geni d’interesse in punti selezionati del genoma, sfruttando le regioni di complementarietà nucleotidica. Inoltre l’elevata frequenza di questa tipologia di ricombinazione garantisce ottime probabilità che le sequenze geniche introdotte si integrino. Se a questo aggiungiamo che gli organismi trasformati sono facilmente coltivabili axenicamente, con ottimi margini di crescita in biomassa, il tutto si configura più chiaramente a livello di sfruttamento industriale. In questo contesto ha un ruolo determinante la ricerca di base, volta alla comprensione del genoma di questi organismi: sono stati caratterizzati vari trascrittomi e abbiamo a disposizione l’intero genoma sequenziato di P. patens, del muschio delle torbiere del genere Sphagnum e dell’epatica Marchantia polymorpha.

Biofabbriche di metaboliti

Vista la notevole conoscenza del muschio modello P. patens, svariate ricerche si sono concentrate sull’ingegnerizzazione volta alla produzione di molecole di interesse commerciale. Parliamo di diterpenoidi come il taxadiene, un antitumorale intermedio del tassolo, di sesquiterpenoidi, come la fragranza patchouli ampiamente usata in profumeria, o il farmaco artemisinina, un potente antimalarico. A tale proposito si sta cercando di identificare la cascata di geni endogeni coinvolti nella produzione di metaboliti quali i terpeni, al fine di silenziare specifici geni, facendo convergere i precursori metabolici verso le molecole di interesse industriale.

Physcomitrella patens, un candidato per il molecular farming

Abbiamo già esplorato il molecular farming e le sue potenzialità, al fine di utilizzare piante come vere e proprie biofabbriche, volte alla produzione di anticorpi, vaccini e altre molecole di utilizzo medico. Vista l’attenta conoscenza dei genomi richiesta per predire la struttura della proteina che si vuole andare a produrre, nel pool delle briofite, ad oggi, P. patens potrebbe rappresentare un valido protagonista.

Da una parte è possibile introdurre i geni codificanti per le proteine di interesse, “umanizzando” i polipeptidi tramite l’inserimento nel genoma di un corretto e preciso pattern di N-glicosilazioni, sempre mediante gene targeting, dall’altra si ha un ulteriore vantaggio rispetto a colture di cellule appartenenti a piante più evolute: la semplicità del genoma di P. patens permette di prevenire l’attacco di O-glicani, problema riconducibile a colture di piante superiori (eccetto per specifiche applicazioni, vedasi Elelyso). Inoltre, un attento studio dei parametri colturali permette di spingere le produzioni anche a PBR di 500 litri, consentendo produzioni su scala industriale.

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Coltivazione di briofite in fotobioreattori.

Tutti questi fattori hanno spinto verso l’effettivo sfruttamento di P. patens per la produzione di farmaci. Nel 2017, l’enzima moss-aGal, dell’azienda Greenovation ha passato la fase I di trial clinici. Moss-aGal è un chiaro esempio di terapia enzimatica di sostituzione per quei pazienti che presentano carenza o una forma difettiva dell’enzima α-galattosidasi A, risultante nella malattia di Fabry, una malattia da accumulo lisosomiale.

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Il caso del genere Sphagnum

I muschi del genere Sphagnum hanno una grande importanza ecologica: sono fra i principali costituenti delle torbiere, ovvero depositi di materia organica (muschi in primis) che a causa dell’asfissia dovuta alla presenza di limo e la presenza di composti tannici inibiscono l’attività mineralizzante dei batteri del suolo, conservando elevati tenori di sostanza organica. I residui dello sfagno in particolare, grazie al reticolo cellulare poroso che li caratterizza e permane, svolgono una funzione di “gestione” dell’acqua, a mo’ di spugna, estremamente importante per i terricci.

Le torbiere garantiscono a valle il foraggiamento di larga parte del settore primario. Però queste risorse rappresentano un importante sink di CO2, intrappolata all’interno di questi terreni asfittici. Le torbiere coprono solo lo 0,5% delle terre emerse, eppure le asportazioni condotte per il settore agricolo contribuiscono per il 32% dei gas serra agricoli a livello globale. Nonostante la torba di sfagno rappresenti il costituente d’eccellenza dei terricci, è necessaria un’inversione di rotta e la coltivazione di questo muschio potrebbe rappresentare un’alternativa. In tal senso, il Ministero Federale Tedesco dell’agricoltura e nutrizione si è mosso nel 2017, con l’iniziativa MOOSzucht, volta alla coltivazione in fotobioreattori di Sphagnum, finalizzata all’accelerazione del ritmo di crescita troppo lento per rispondere alle sfide del settore primario, senza ricorrere a ciò che si è sedimentato nel corso dei secoli.

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Blocchi di torba di sfagno, fresati dalla superficie di una torbiera.

Ad oggi, il genere Sphagnum trova utilizzo anche nel biomonitoraggio: i muschi assorbono elementi e nutrienti direttamente dall’aria, di conseguenza il contenuto dell’organismo riflette quella che è la qualità dell’aria. Fra i muschi utilizzati a tal fine, le specie del genere Sphagnum sono le più utilizzate, per il maggior uptake di metalli pesanti. Il biomonitoraggio si effettua tramite la tecnica delle mossbag, sacchetti porosi, riempiti con sfagno, che vengono depositati in diversi punti del sito in corso di studio.

Il materiale biologico deve tuttavia essere comparabile, non può di base essere soggetto a variabilità che potrebbe falsare le analisi: di conseguenza non è il caso di raccogliere muschio cresciuto spontaneamente, specie se consideriamo che questa azione è vietata (Direttiva habitat del concilio europeo, 92/43/EEC).

In tal senso, la coltivazione in ambiente axenico, all’interno di PBR da 5-12 litri, può garantire materiale standardizzato e in maniera più celere, rispetto all’alternativa naturale. Il materiale prodotto in condizioni controllate ha mostrato incrementi in biomassa di 30 volte nel giro di 4 settimane e per la prima volta si è dimostrato l’assorbimento di nanoparticelle di polistirene, offrendo quindi un’ulteriore opportunità: utilizzare lo sfagno in ambienti acquatici per rilevare la presenza di microplastiche.

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Le briofite hanno sempre rivestito un ruolo marginale a livello applicativo, ma come abbiamo visto oggi in alcuni settori sono già realtà e per altri potrebbe essere solo questione di tempo.

Ci auguriamo che, da oggi in poi, guardando il muschio nel presepe pensiate che quella non è la sua unica utilità.

Stay tuned!

BGreen team

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Bibliografia

  • Anchang, K. Y., & Simonsen, H. T. (2019). Developments and Perspectives in Bryophyte Biotechnology in Sub-Saharan Africa. In Biotechnology and Bioengineering. IntechOpen.Beike, A. K., Jaeger, C., Zink, F.,
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  • Wandrey, F., Henes, B., Zülli, F., & Reski, R. (2018). Biotechnologically Produced Moss Active Improves Skin Resilience. SOFW J, 144, 34-37.

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